Una panoramica
Ecco il secondo appuntamento con Speakeasy, la newsletter che si crede un podcast e che parla del jazz e delle sue conseguenze.
Nella parte audio ho dovuto comprimere al di sopra delle mie aspettative l’excursus nella palette dei suoni del jazz rapportata al tempo. Ecco perché qui questa volta affronto due argomenti cardine. Uno è appunto la storia del jazz ridotta ai minimi termini poiché come dico di là lo scopo è soltanto quello di fornire un contesto (per tutti i dettagli della storia del jazz c’è il libro di Ted Gioia che risolve tutto o quasi). L’altro è l’approdo del Selettive Service Art le cui conseguenze ci coinvolgono da vicino sia per il contesto che per le storie da raccontare in Speakeasy.
Inizio dalla palette di colori, fornendo anche tracce di ascolto alternative rispetto ai piccoli campioni che sono inseriti nella versione audio. Si tratta di allargare la prospettiva per comprendere meglio qual è il terreno su cui si muoverà Speakeasy, qual è il terreno che le suole dei protagonisti di queste narrative calpestano.
La nascita del jazz – New Orleans e il Dixieland (1900-1920)
Immagina una città piena di colori e musica: siamo a New Orleans, in Louisiana, più di cento anni fa. Qui ci sono persone di tante parti del mondo: africani, francesi, italiani, caraibici… Ognuno porta la propria musica e tutti si mescolano come in una grande festa.
Un giorno, qualcuno ha un’idea brillante: e se mettessimo insieme il ritmo africano con le melodie europee? Così nasce il jazz, e i primi gruppi suonano per strada o nei locali. Usano trombe, clarinetti, pianoforti e batteria, e la musica è allegra, con tanto spazio per l’improvvisazione. Questo stile si chiama Dixieland, ed è come una banda di carnevale che non si ferma mai di suonare.
Lo Swing – Il jazz che fa ballare! (1920-1940)
Ora il nostro treno arriva agli anni ’30. Sai cosa succede? Il jazz diventa così popolare che tutti vogliono ballarlo! Nasce lo swing, un jazz più ritmato, perfetto per le sale da ballo. Le grandi orchestre, chiamate big band, suonano per far muovere la gente e le città sono piene di locali con piste da ballo giganti.
In questa epoca suonano musicisti famosi come Duke Ellington e Count Basie. Le loro orchestre sono come macchine perfette: ogni strumento ha il suo posto, ma c’è sempre un po’ di spazio per un assolo spettacolare!
Il Bebop – Il jazz che corre veloce (1940-1955)
Siamo arrivati negli anni ’40, e i musicisti iniziano a stancarsi di suonare solo per far ballare la gente. Vogliono sperimentare e fare cose più difficili, come in una gara di velocità musicale! Nasce il bebop, un jazz super veloce con assoli incredibili.
I protagonisti di questa rivoluzione sono Charlie Parker (un sassofonista velocissimo) e Dizzy Gillespie (un trombettista con gli occhiali buffi). La loro musica è più difficile da ballare, ma fa impazzire gli altri musicisti. È come se il jazz fosse diventato un videogioco con il livello di difficoltà al massimo!
Il Cool Jazz – Il jazz tranquillo (1950-1960)
Dopo la tempesta del bebop, qualcuno decide di rallentare un po’ e creare un jazz più rilassato e sognante: nasce il cool jazz. È come una giornata d’estate sulla spiaggia, dove tutto è morbido e lento.
Un grande maestro di questo stile è Miles Davis, con il suo suono dolce e misterioso. Il cool jazz sembra quasi un dipinto musicale, con colori delicati e tante emozioni nascoste dentro ogni nota.
L’Hard Bop – Il jazz con più ritmo (1955-1970)
Mentre alcuni musicisti si rilassano con il cool jazz, altri vogliono riportare il ritmo africano nel jazz. E così nasce l’hard bop, un jazz più forte, pieno di energia e con tanto blues dentro.
I musicisti di questo periodo suonano con grinta, e tra loro ci sono Art Blakey e Horace Silver. È un jazz che ti fa battere il piede, con ritmi che sembrano il battito del cuore.
Il Free Jazz – Il jazz senza regole! (1960-1975)
E se ti dicessi che esiste un jazz in cui puoi suonare tutto quello che vuoi, senza schemi? Negli anni ’60 arriva il free jazz, che è come un grande gioco musicale senza limiti.
Uno dei più famosi musicisti di questo periodo è Ornette Coleman, che suona il sassofono come se stesse inventando un linguaggio segreto. Il free jazz è selvaggio e pieno di sorprese: alcuni lo adorano, altri non lo capiscono… ma di sicuro non è mai noioso!
Il Jazz-Rock e la Fusion – Il jazz elettrico (1970-1990)
Siamo arrivati agli anni ’70 e i musicisti scoprono la chitarra elettrica e i sintetizzatori. Decidono di unire il jazz con il rock, e così nasce la fusion!
Qui torna Miles Davis, che con il suo album Bitches Brew fa esplodere il jazz in mille suoni diversi. Altri gruppi come i Weather Report creano un jazz pieno di effetti speciali, perfetto per viaggiare con la mente.
Il Jazz di oggi – Il futuro è aperto! (1990-oggi)
E ora? Il jazz non si è mai fermato! Oggi ci sono tantissimi tipi di jazz: alcuni musicisti lo mescolano con il hip-hop, altri con la musica elettronica.
Ci sono artisti come Kamasi Washington, che fanno un jazz grande e potente come un’orchestra spaziale, o Robert Glasper, che lo suona come se fosse un rapper. Il jazz è diventato infinito, e chiunque può prendere il proprio strumento e inventare qualcosa di nuovo!
Ma, come dicevo, adesso è necessario tornare all’inizio. Ed è un inizio in cui il calendario segna 1881.
James Reese Europe non era solo un musicista: era un pioniere, un organizzatore e un innovatore che trasformò la scena musicale afroamericana e pose le basi per la diffusione del jazz su larga scala. Il suo impatto si fece sentire ben prima della Prima Guerra Mondiale, negli anni in cui Harlem stava emergendo come centro culturale nero negli Stati Uniti.
Nato il 22 febbraio 1881 a Mobile, Alabama, si trasferì con la famiglia a Washington D.C. da bambino. La capitale americana aveva una delle più importanti comunità afroamericane istruite del paese e offriva opportunità uniche per i giovani talenti neri. Fin da piccolo, Europe si immerse nello studio della musica, apprendendo il violino, il pianoforte e la teoria musicale. Washington D.C. era anche il luogo in cui risiedeva la rinomata U.S. Marine Band, diretta da John Philip Sousa, il più celebre compositore di marce dell’epoca. L'influenza delle marce militari sarebbe poi emersa nel suo stile musicale, fondendosi con il ragtime e il blues per creare un suono nuovo ed energico.
Nel 1904, James Reese Europe si trasferì a New York City, in un momento in cui Harlem stava iniziando a trasformarsi nel cuore della cultura afroamericana. Qui, il ragtime stava guadagnando popolarità e le sale da ballo erano in fermento. Europe trovò subito spazio come pianista, arrangiatore e direttore d’orchestra, diventando una figura di riferimento per i musicisti neri della città.
L’industria dell’intrattenimento americana dell’epoca era ancora rigidamente segregata. Gli artisti afroamericani faticavano a ottenere contratti dignitosi e spesso venivano pagati meno rispetto ai loro colleghi bianchi. Europe capì presto che l’unico modo per garantire ai musicisti neri il rispetto e la giusta compensazione era creare un’istituzione tutta loro.
Era il 1910 quando James Reese Europe, già noto nel panorama musicale di Harlem, decise che era arrivato il momento di cambiare le regole del gioco. In un’America che da sempre relegava gli afroamericani ai margini, non solo nella società ma anche nel mondo della musica, Europe fondò il Clef Club.
Ma il Clef Club non era solo un’associazione, né solo una semplice agenzia di impresariato. Era una risposta, una dichiarazione di guerra alla discriminazione e allo sfruttamento. Era un luogo dove gli artisti afroamericani avrebbero finalmente potuto trovare spazio per brillare, lontano dalle catene del razzismo che avvolgevano la loro arte. Europe aveva una visione: restituire dignità alla musica dei neri, farla conoscere a un pubblico che fino ad allora l’aveva ignorata.
La sua ambizione, però, non si fermava alla creazione di un semplice club. Nel 1912, solo due anni dopo la fondazione, il Clef Club dimostrò al mondo che la sua musica meritava di essere ascoltata nei luoghi più prestigiosi. E così, in un atto che segnò una vera e propria rivoluzione, Europe organizzò un concerto della Clef Club Orchestra alla Carnegie Hall, tempio della musica classica, nel cuore di Manhattan.
La Carnegie Hall, costruita appena venti anni prima, era considerata il palcoscenico supremo della musica, e qui, dove fino a quel momento avevano suonato solo artisti bianchi, gli afroamericani del Clef Club presero il loro posto sotto i riflettori.
Il concerto non era solo un’esibizione, ma una dichiarazione di esistenza. Si trattava di un evento a beneficio di una scuola di musica per afroamericani, una causa che Europe e i suoi musicisti sostenevano con orgoglio. Quel giorno, sotto le luci della Carnegie Hall, il jazz – ancora giovane e in fase di evoluzione – fece il suo ingresso in uno degli spazi più esclusivi del mondo musicale. Non ci sarebbero voluti altri ventisei anni per vedere la musica di jazz entrare in questo tempio della musica: nel 1938, Benny Goodman avrebbe portato la sua band, ma nel 1912 fu Europe, con il suo Clef Club, a tracciare il cammino.
Il fatto che un’orchestra afroamericana fosse riuscita a esibirsi alla Carnegie Hall non era solo un trionfo per James Reese Europe. Era un segno del cambiamento che stava crescendo silenziosamente nel cuore di Harlem, una risposta alle difficoltà, una spinta verso il riconoscimento di un valore che nessuno avrebbe più potuto ignorare. In quel momento, il Clef Club non era solo un gruppo di musicisti: era una dichiarazione di identità, una prova del fatto che la musica nera, troppo a lungo marginalizzata, aveva il potere di risuonare nelle stanze più prestigiose e più bianche di New York. Era il primo passo di un lungo viaggio che avrebbe portato il jazz, e con esso la cultura afroamericana, ad essere riconosciuti su scala mondiale.
Questo evento contribuì enormemente alla legittimazione della musica afroamericana e dimostrò che il ragtime (e il jazz nascente) non erano solo generi "da ballo" ma anche un’arte musicale complessa e degna di rispetto.
Dopo il successo alla Carnegie Hall, Europe divenne una delle figure più richieste nel mondo della musica e dello spettacolo. Nel 1914, il celebre ballerino Vernon Castle e sua moglie Irene Castle, all’epoca la coppia più influente nel mondo della danza, lo scelsero come direttore musicale della loro compagnia. I Castle erano famosi per aver reso eleganti e popolari i balli di coppia come il foxtrot e il tango, e volevano una musica fresca e innovativa per accompagnare le loro esibizioni.
Europe e la sua orchestra non solo fornirono questa musica, ma contribuirono a modellare il suono della danza moderna. La loro collaborazione aiutò a rendere il jazz e il ragtime più accettabili tra il pubblico bianco dell’alta società, spianando la strada alla futura diffusione del jazz negli anni '20.
Durante questo periodo, Europe registrò diversi brani con la Victor Talking Machine Company, che contribuirono a diffondere il suo stile in tutta la nazione. Tra i suoi pezzi più famosi dell’epoca ci sono "Castle House Rag" e "Memphis Blues", che mostrano il suo talento nell’arrangiare la musica in modo sofisticato e ritmicamente coinvolgente.
C’era un tempo in cui la guerra non bussava alla porta con un avviso su uno schermo, né arrivava sotto forma di notifiche push. No, la guerra parlava con il suono del campanello di casa, con una lettera chiusa in una busta ufficiale, con il timbro del governo degli Stati Uniti. Era la chiamata del Selective Service Act.
Quando nel 1917 il Congresso americano approvò questa legge, l’eco della guerra in Europa era già diventata un tuono. Gli Stati Uniti, ancora titubanti, si affacciavano su un conflitto che si stava mangiando intere generazioni di giovani europei. Ma la neutralità aveva le ore contate, e per combattere una guerra servivano uomini. Tanti. Il Selective Service Act nacque per questo: creare un sistema di coscrizione obbligatoria che avrebbe portato milioni di giovani americani sui campi di battaglia.
La legge non era solo un pezzo di carta con delle regole. Era un cambiamento radicale nella percezione del dovere civile. Fino ad allora, gli Stati Uniti avevano mantenuto un esercito professionale relativamente piccolo, e il concetto di una leva su larga scala sembrava qualcosa di lontano, da vecchie monarchie europee. Ma la modernità della guerra imponeva scelte drastiche, e così tra il 1917 e il 1918 circa 2,8 milioni di uomini furono arruolati attraverso la coscrizione, mentre il totale delle forze armate statunitensi raggiunse 4,8 milioni di soldati.
Il Selective Service Act non fu solo una risposta d’emergenza: rimase, cambiò forma, divenne uno strumento che il governo avrebbe usato nei decenni successivi per alimentare il suo esercito. Durante la Seconda Guerra Mondiale, la leva divenne un'istituzione permanente. Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra dopo Pearl Harbor, oltre 10 milioni di americani finirono sotto le armi.
Ma quando il Selective Service Act entrò in vigore nel 1917, gli Stati Uniti erano ancora un paese profondamente segnato dalla segregazione razziale. La guerra che si stava combattendo in Europa era definita dal presidente Woodrow Wilson come una battaglia per la democrazia e la libertà, eppure, all’interno degli stessi Stati Uniti, milioni di cittadini afroamericani vivevano in una condizione di discriminazione sistematica.
Eppure, quando si trattò di mandare uomini al fronte, la coscrizione obbligatoria richiese che tutti gli uomini tra i 21 e i 30 anni (poi estesa dai 18 ai 45 anni nel 1918) si registrassero per il servizio militare. Tra questi c’erano oltre 370.000 afroamericani, molti dei quali finirono a combattere in Europa. Ma combattere sotto la bandiera a stelle e strisce non significava combattere da pari a pari. L’esercito americano rimase rigidamente segregato, e gli afroamericani furono spesso confinati in unità non combattenti, con mansioni di supporto logistico, costruzione di infrastrutture e trasporto di rifornimenti.
Tra i pochi reparti afroamericani mandati in battaglia c’era il 369º Reggimento di Fanteria, meglio noto come Harlem Hellfighters. Tuttavia, l’esercito americano rifiutò di farli combattere accanto alle truppe bianche e li assegnò all’esercito francese, che invece li accolse, equipaggiandoli con armi e divise francesi. I francesi, meno inclini alla segregazione, li trattarono come soldati alla pari, e gli Harlem Hellfighters si distinsero per il loro valore, guadagnandosi il rispetto e numerose decorazioni militari.
Uno di loro era James Reese Europe, pioniere del jazz e direttore d’orchestra, che capì che la guerra non si combatteva solo con le armi, ma anche con il morale. Con la Harlem Hellfighters Military Band, portò il jazz in Europa. Parigi e le città francesi si innamorarono del nuovo suono americano. Le loro esibizioni a Nantes, Parigi e in tutta la Francia diffusero il jazz nel Vecchio Continente, piantando il seme di un genere musicale che avrebbe conquistato il mondo.
Ma al loro ritorno negli Stati Uniti, gli Harlem Hellfighters non furono accolti da eroi. Nel Red Summer del 1919, una serie di pogrom razzisti scoppiò in oltre 30 città americane, con ex soldati afroamericani attaccati e linciati solo per aver indossato la loro uniforme. La segregazione non si era attenuata, e la paura che uomini neri addestrati alla guerra potessero rivendicare i loro diritti spinse molti stati a inasprire le leggi discriminatorie.
James Reese Europe cambiò la storia con la sua musica. Ma il paese per cui aveva combattuto non era ancora pronto a cambiare con lui.
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