Hip Hop and a telephone
Ciao, questa è Speakeasy, la newsletter che si crede un podcast, un percorso che comincia oggi, ma si muove su un asse temporale che sfugge alle regole.
Speakeasy parte da qui.
Se hai ascoltato la versione audio, avrai già colto il legame tra Unsupervised – incentrato su America e Hip Hop (e se ti dovesse interessare invia la richiesta di accesso a tutte le puntate da questo link) e questa nuova avventura. Il filo conduttore di questa volta? Le connessioni che attraversano il tempo tra questi generi o, meglio, il jazz e le sue conseguenze - come preferisco definirlo.
Ti faccio un esempio.
Herbie Hancock era un bambino prodigio. Nato a Chicago nel 1940, a soli 11 anni eseguiva un concerto di Mozart con l’orchestra della città. La sua mente curiosa e la sua tecnica brillante lo portarono presto nel cuore pulsante del jazz: a vent’anni era già tra i pianisti più promettenti della scena. Poi arrivò Miles Davis, e con lui il Quintetto che avrebbe riscritto le regole della musica.
Nel 1965 Hancock pubblicò Maiden Voyage, un album che sembra nascere dal respiro stesso dell’oceano. Il pezzo omonimo è un inno alla libertà del viaggio, un jazz modale che culla l’ascoltatore con la sua armonia ciclica e il suono etereo della tromba di Freddie Hubbard. Ma è con Dolphin Dance che Hancock lascia il segno più profondo: un brano che è pura fluidità, un dialogo tra strumenti che si rincorrono come correnti marine. Un pezzo che non ha tempo, destinato a vivere e rinascere in nuove forme. Dolphin Dance è presente come traccia nascosta in ogni composizione, un'eco che si ripete attraverso le generazioni.
L’arrangiamento di Hancock in Dolphin Dance è sofisticato e arioso, con un interplay raffinato tra pianoforte, basso e fiati. La sua costruzione armonica è stratificata, con un uso sapiente delle modulazioni che donano al pezzo un senso di continuo movimento. Ogni strumento ha il suo spazio, contribuendo alla creazione di un’atmosfera sospesa, quasi onirica.
Nel frattempo, su un altro lato della scena jazz, Ahmad Jamal stava scrivendo la sua storia. Nato a Pittsburgh nel 1930, Jamal aveva un dono unico: sapeva suonare le pause. La sua musica era fatta di spazi e attese, di tocchi misurati e dinamiche imprevedibili. Miles Davis lo ammirava proprio per questo: “Suona come se sapesse sempre cosa NON suonare”.
Nel 1970, Jamal pubblicò The Awakening, un album che è un vero e proprio risveglio. Qui la sua tecnica raffinata e il suo minimalismo raggiungono l’apice, trasformando il pianoforte in uno strumento narrativo. La sua capacità di costruire atmosfere sospese influenzò non solo il jazz, ma anche il mondo nascente dell’hip-hop, dove il suo suono cristallino sarebbe stato campionato e trasformato in nuovi beat. Dolphin Dance, con la sua armonia fluttuante, risuona sottilmente anche nelle invenzioni di Jamal, un leitmotiv nascosto che collega i grandi innovatori.
Diversamente dall’interpretazione di Hancock, la versione di Jamal di Dolphin Dance è più asciutta e percussiva. Il suo pianismo lascia più spazio al silenzio, sfruttando il minimalismo e l’uso calibrato delle pause per creare tensione e rilascio. Jamal enfatizza il groove del pezzo con un tocco deciso, trasformandolo in una danza più strutturata e ritmica, quasi ipnotica.
Ed eccoci nel nuovo millennio, dove il jazz continua a vivere in modi inaspettati. A San Francisco, un giovane produttore e rapper di origini coreane, Kero One, stava cercando la sua strada tra i vinili polverosi dei vecchi maestri. Scoprì Ahmad Jamal e il suo The Awakening, e capì subito che quel suono poteva trovare una nuova vita nell’hip-hop.
Kero One prese il groove ipnotico di Jamal, lo campionò e lo trasformò in un beat sinuoso, su cui stese rime che raccontavano di sogni e viaggi urbani. Il jazz non era più solo per i jazzisti: diventava la colonna sonora di una nuova generazione di artisti che mescolavano passato e futuro, vinili e computer, improvvisazione e programmazione. Dolphin Dance continua a emergere come una corrente sotterranea, un'ispirazione senza tempo che affiora in ogni nuova rielaborazione.
Qui una lettura. L’altra, quella anche del podcast, è il parallelo fra jazz e hip hop e di come il jazz uscito dagli Stati Uniti abbia conquistato l’Europa radicandosi in luoghi inaspettati. Le ragioni le vedremo più avanti, intanto partiamo dai Paesi Bassi.
Olanda, come chiamiamo impropriamente questo posto, dove l’improvvisazione jazz è viva fin dagli anni ’20. Certo, dal 1920 al 2025 il mondo è cambiato – e di parecchio! – ma lo spirito del jazz è rimasto intatto, evolvendosi anche grazie alla tecnologia. Un esempio perfetto di questa cosa? Tin Men and the Telephone, un trio olandese che unisce improvvisazione e innovazione digitale in modi sorprendenti.
In queste note di copertina, mi soffermo su aspetti che non trovano spazio nel podcast. Questa volta volevo condividere anche un estratto da un concerto (che puoi vedere e ascoltare più sotto) al Ronnie Scott’s di Londra. Ma partiamo dall’inizio.
Immagina di trovarti in un club affollato di Amsterdam nel 2009. Sul palco, un trio di musicisti sta per esibirsi: Tony Roe al pianoforte, Pat Cleaver al contrabbasso e Jamie Peet alla batteria. Ma questa non sarà una performance jazz tradizionale. Questa sera segna la nascita di qualcosa di rivoluzionario nel panorama musicale: i Tin Men and the Telephone.
Tony Roe, nato ad Amsterdam nel 1979, ha sempre avuto una passione per la musica. Fin da piccolo, cercava di raggiungere i tasti del pianoforte e pizzicare il contrabbasso nascosto nella lavanderia di casa. La sua formazione musicale è stata influenzata da una combinazione di musica classica, jazz e ritmi latino-americani, grazie alle radici caraibiche di sua madre. Dopo aver studiato pianoforte classico al Royal Conservatory dell'Aia e jazz al Conservatorio di Amsterdam, Tony ha iniziato a sperimentare l'integrazione della tecnologia nella musica, ponendo le basi per la nascita dei Tin Men and the Telephone.
Il trio ha rapidamente guadagnato notorietà per la loro capacità di fondere generi musicali diversi, dall'hip-hop al jazz, incorporando suoni della vita quotidiana e utilizzando la tecnologia per creare esperienze interattive uniche. Nel 2013, hanno lanciato l'app Tinmendo, progettata per coinvolgere il pubblico nelle loro esibizioni dal vivo, permettendo agli spettatori di influenzare la musica in tempo reale.
Durante la pandemia, i Tin Men and the Telephone hanno adattato le loro performance al formato online, permettendo a migliaia di persone in tutto il mondo di partecipare e interagire con la band direttamente dal loro studio di Amsterdam.
Oggi, i Tin Men and the Telephone continuano a spingersi oltre i confini della musica tradizionale, offrendo spettacoli multimediali immersivi che combinano improvvisazione musicale, elettronica dal vivo, immagini dirompenti e la partecipazione attiva del pubblico. La loro missione è reinventare la musica e cambiare il modo in cui vediamo il mondo, usando la tecnologia e l’interazione con il pubblico - quasi ad annullare la distanza fra palco e sala - per dare vita ad esperienze che sfidano le convenzioni e stimolano la creatività collettiva.
Il Guardian ha scritto anche questo, a proposito del loro concerto al Ronnie Scott di Londra:
Poco prima del loro set di 80 minuti al Ronnie Scott’s di Londra, hanno chiesto ai circa 160 spettatori presenti di connettersi al Wi-Fi del club e scaricare la loro app, Tinmendo, progettata da Mark Marijnissen. L’app era pensata per coinvolgere il pubblico direttamente nell’esibizione, mentre il pianista del gruppo, Tony Roe, elaborava in tempo reale i contributi ricevuti tramite il suo laptop. Un grande schermo alle spalle della band mostrava immagini esplicative per guidare gli spettatori nel processo.
Gli spettatori potevano suggerire melodie, ritmi e accordi attraverso un’interfaccia grafica, e il trio improvvisava su una base di breakbeat spezzati, cluster di accordi inaspettati e frammenti melodici casuali. Il pubblico aveva anche la possibilità di votare per decidere se la band dovesse accelerare, rallentare, suonare in modo “nervoso”, “rilassato”, “strano” o persino prendersi una pausa. In un’altra sezione dello show, gli spettatori avevano 90 secondi per indovinare quale canzone pop veniva deliberatamente stravolta in chiave avant-jazz (quella sera sono stati massacrati, tra gli altri, brani di Soundgarden, Spice Girls ed Ed Sheeran).
L’interazione non era a senso unico: durante un delicato brano pianistico dalle atmosfere alla Erik Satie, alcuni suoni del piano di Roe continuavano a riecheggiare sugli smartphone del pubblico, come se il suo assolo si riflettesse nell’ambiente con qualche secondo di ritardo, creando un effetto di eco surreale in tutto il locale.
Qui sotto la trascrizione della sessione di improvvisazione musicale che Tin Man And A Telephone hanno tenuto al Ronnie Scott di Londra il 22 Agosto 2017.
Si parte con una introduzione registrata che recita:
Non avete bisogno di leader mondiali. Non avete bisogno di nessuno che vi dica cosa fare. E di certo non avete bisogno di compositori.
La musica è potere. Potere al popolo. D'ora in poi, creerete la vostra musica.
Quindi, terrestri, aprite la vostra app e attendete istruzioni. Dato che la vostra musica terrestre ha solo dimensioni limitate, ci limiteremo a elementi primitivi come ritmo, armonia e melodia. Iniziamo con il ritmo.
Poi è Tony Roe, il capo della banda, a prendere il controllo della situazione iniziando a spiegare di utilizzare una app e di accedere alla rete wi-fi del locale per una sessione interattiva di musica improvvisata. Qui di seguito la traduzione delle interazioni con il pubblico londinese:
(Tony Roe):
Bene, penso che da qui prenderò il controllo io. Sarà un po' più semplice. Se aprite la vostra app, ora potete vedere un'interfaccia circolare, un cerchio con molti puntini ai lati.
Questi puntini potete trascinarli nel cerchio e, se premete il pulsante di riproduzione e alzate il volume, potrete sentire cosa state facendo. In questo modo potete creare un ritmo. Quindi premete il puntino rosso sul lato destro con il pulsante di riproduzione, alzate il volume e trascinate i puntini in modo da creare qualcosa di… magari un po' ballabile.
Un po' ballabile. E useremo il meglio di questo. Alla fine metteremo tutto insieme e creeremo una composizione collettiva con tutti voi.
Ok, quando avete finito, premete l'icona nera sul lato destro con la freccia dentro. È il pulsante di caricamento. In questo modo potremo vedere cosa avete creato.
Vedo alcune cose piuttosto interessanti qui davanti. Ok, diamo un’occhiata. Per favore, premete il pulsante giusto, il pulsante di caricamento, e ascoltiamo.
Non è un brutto inizio. Vediamo... Molly Garner.
Abbastanza groovy. Vediamo... Tim, il tecnico del suono.
Ha lavorato sodo, ve lo posso dire. Molto interessante. Ce lo ricorderemo.
Thompson Twins. Ci manca un po' di cassa, vero? E poi? Kelly. È così minimalista, giusto? Sei nel club giusto stasera? Wow.
Vediamo. Ora, in realtà, ci servono degli accordi, giusto? Perché potrei inventarli io, ma è più figo se lo fate voi. È molto semplice.
Vedrete solo tre puntini al centro del cerchio. Formano un accordo di triade aumentata. Potrebbe non suonare benissimo, quindi magari vorrete riposizionare questi puntini e cambiare l'intonazione.
Se create un accordo esistente, lo vedrete in basso a sinistra. Vedrete il risultato. Più tardi vedremo se possiamo suonarli o combinarli.
Qui ci sono cose interessanti. Se lo caricate ora, vedremo cosa possiamo fare. Ok, ok.
Grazie. Penso che ci siamo. Abbiamo selezionato alcune melodie interessanti, ritmi accattivanti e armonie piacevoli.
Ora proverò a mettere tutto insieme.
La cosa è questa: se suona bene, è tutto merito vostro. Se suona male... beh, è colpa vostra.
Vediamo. Ripartiamo dal ritmo. Prendiamo questo.
Questo suona davvero bene, giusto? Sì, Tim. Ben fatto. Ti sei esercitato.
Bobby Petrov alla batteria da Sofia. Pat Cleaver al basso da Londra. Io sono Tony Roe.
Noi siamo Tin Men and the Telephone. Grazie mille.
Insomma, Tin Men and The Telephone fanno musica. E non è di certo la musica che sopravvivrà all’apocalisse, ma di certo è quella che ci può tenere compagnia fino a quel momento.
Una nota su Jazz modale
Immagina di avere una scatola piena di mattoncini colorati. Se ti dicessi che puoi costruire solo case con quei mattoncini seguendo uno schema preciso, come un castello con torri e finestre tutte uguali, sarebbe un po’ come la musica normale, che segue regole ben definite su quali note si possono suonare e quando.
Ora, invece, immagina che io ti dica: "Usa questi mattoncini come vuoi, non devi seguire uno schema fisso, basta che la tua costruzione abbia un'idea principale e che tutti i pezzi stiano bene insieme". Questo è più o meno il concetto della musica modale!
Nella musica normale (quella che chiamiamo "tonale"), ci sono regole molto precise su quali note suonare e come devono andare d’accordo tra loro. Se suoni una canzone in DO maggiore, ci sono alcune note che vanno bene e altre che non funzionano.
La musica modale, invece, usa delle "scale" speciali chiamate modi, che danno un sapore diverso alla musica. I modi sono come delle "ricette" che usano sempre gli stessi ingredienti, ma li mescolano in modo diverso per creare gusti nuovi.
Il jazz modale è un modo di suonare jazz lasciando più libertà ai musicisti. Invece di cambiare continuamente accordi e regole, i musicisti usano un solo modo per un po' di tempo e si divertono a esplorarlo. Questo significa che possono improvvisare e creare melodie molto libere, senza sentirsi obbligati a cambiare accordo ogni secondo.
Il brano più famoso del jazz modale è "So What" di Miles Davis. In questa composizione, i musicisti suonano quasi sempre le stesse poche note, ma giocano con il ritmo, le sfumature e le emozioni per creare qualcosa di incredibilmente bello.
Quindi, se il jazz normale è come una gara di corsa con ostacoli e percorsi obbligati, il jazz modale è come correre in un grande prato aperto, dove puoi scegliere la direzione e il ritmo che preferisci.
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