Dicono assomigli a Dio
Questa è Speakeasy, la newsletter che si crede un podcast e che parla del jazz e delle sue conseguenze.
Quello che mi piace della doppia dimensione di Speakeasy è la possibilità di portare nelle note di copertina alcuni aspetti che non sono approfonditi - per la natura della sua struttura - nella parte audio. La possibilità di illuminare il contesto, quel che c’è attorno a quello che si racconta e si ascolta “di là”.
Questa volta sono tre digressioni lasciate alla parola scritta.
Nella parte audio non ha trovato spazio un approfondimento sui Little Rock Nine.
Quando nel 1954 la Corte Suprema degli Stati Uniti emise la storica sentenza Brown v. Board of Education, la comunità afroamericana accolse la decisione con entusiasmo. Finalmente, la segregazione nelle scuole pubbliche era dichiarata incostituzionale. Il verdetto si basava non solo su principi legali, ma anche sull’impatto psicologico devastante che la segregazione imponeva ai bambini neri. Tuttavia, c'era un problema: l’implementazione della sentenza venne lasciata a un futuro indefinito, con l’ambigua formula "con tutta la velocità deliberata".
Questa incertezza diede ai suprematisti bianchi il tempo di organizzarsi. Nacque un movimento di resistenza chiamato White Citizens’ Council, che, affiancato dal Ku Klux Klan, dichiarò guerra aperta all’integrazione con boicottaggi, cause legali e atti di terrorismo. Mentre le famiglie nere guardavano con speranza al futuro, il presente era pieno di paura. Sapevano che chiunque avesse osato sfidare l’ordine segregazionista avrebbe affrontato violenza.
Tra loro c’era Melba Beals, 12 anni, che una sera tornava a casa da scuola quando un uomo bianco la aggredì gridando: "Vi farò vedere che la Corte Suprema non comanda la mia vita!", tentando di strapparle i vestiti. Lei riuscì a scappare.
Tre anni dopo, a Little Rock, Arkansas, la scuola centrale della città, Central High School, fu scelta per l’integrazione. Il consiglio scolastico, sotto la pressione della NAACP, selezionò nove studenti afroamericani tra i cento volontari. Melba Beals era tra loro.
Ma il 4 settembre 1957, il primo giorno di scuola, il governatore Orval Faubus inviò la Guardia Nazionale per impedire ai Little Rock Nine di entrare.
Elizabeth Eckford, 15 anni, non ricevette l’avviso che gli altri otto non sarebbero andati. Si ritrovò sola davanti a una folla di bianchi urlanti. La Guardia Nazionale, invece di proteggerla, la ignorò. La ragazza fu inseguita, minacciata, insultata. Riuscì a fuggire, ma l’incubo era appena iniziato.
Quando un giudice federale ordinò a Faubus di ritirare la Guardia Nazionale, i nove riuscirono a entrare a scuola. Ma la scuola stessa si trasformò in un campo di battaglia. Melba Beals venne attaccata in palestra da un gruppo di madri bianche inferocite. "Prendetela, quella negra!", gridò una di loro. Un’altra la colpì, facendola cadere. "Sanguina! Guarda un po’, i negri hanno il sangue rosso. Calciamo la negra!" Melba dovette farsi largo tra pugni, sputi e insulti per mettersi in salvo.
E non era sola.
Gli altri otto ragazzi subirono attacchi simili. La violenza fuori controllo spinse un dirigente scolastico a dire: "Forse dovremo sacrificare uno di questi ragazzi. Potrebbe essere l’unico modo per fermare la folla. Sono armati e stanno arrivando in massa."
Alla Casa Bianca, il presidente Dwight Eisenhower non era un sostenitore convinto della sentenza Brown vs. Board, ma capì che la situazione stava degenerando. Dichiarò: "Il dominio della folla a Little Rock minaccia la sicurezza degli Stati Uniti e del mondo libero." E così, il 24 settembre, inviò 1.200 paracadutisti della 101ª Divisione Aviotrasportata per proteggere i ragazzi. I soldati, con baionette in vista, li scortarono tra gli insulti della folla. Ogni studente aveva una guardia del corpo durante le lezioni.
Nonostante la protezione militare, la desegregazione avanzava a fatica. Molte scuole nel Sud rimasero segregate per un altro decennio. Nel Nord, la segregazione scolastica persisteva a causa della separazione razziale nei quartieri. La battaglia per l’integrazione scolastica non finì con i Little Rock Nine, ma fu solo l’inizio.
I soldati rimasero solo poche settimane, ma l’esperimento di Little Rock proseguì. I Nine fecero amicizia con alcuni studenti bianchi, ma il clima restava ostile. Minnijean Brown venne ripetutamente sospesa per reazioni a provocazioni razziste e infine espulsa. Gli studenti bianchi festeggiarono con il motto: "Uno in meno, otto da far fuori."
Ernest Green, l’unico senior del gruppo, riuscì a diplomarsi nel 1958, ma il governatore Faubus chiuse tutte le scuole pubbliche di Little Rock l’anno successivo per evitare ulteriori integrazioni. La Corte Suprema annullò questa mossa, ma il danno era fatto. Solo tre dei Little Rock Nine si diplomarono lì; gli altri finirono le superiori altrove.
Decenni dopo, nonostante il coraggio di quei ragazzi, il problema non era risolto. Le scuole nel Sud e nel Nord restavano segregate, non più per legge, ma per le profonde divisioni economiche e sociali.
Ma qualcosa era cambiato. Per la prima volta, il governo federale aveva usato la forza militare per difendere il diritto all’istruzione di studenti neri. E soprattutto, nove adolescenti avevano dimostrato al mondo che la giustizia non era un concetto astratto, ma qualcosa per cui valeva la pena combattere, un pugno alla volta.
Erano questi i fatti su cui Louis Armstrong prese parola. Erano questi i fatti che portarono, a loro modo, alla creazione di The Real Ambassadors, che occupa la seconda digressione di questa newsletter.
Mentre la Guerra Fredda intensificava le tensioni globali, gli Stati Uniti cercavano modi innovativi per migliorare la propria immagine internazionale. Una delle strategie adottate fu l'invio di musicisti jazz in tournée mondiali come "ambasciatori culturali", con l'obiettivo di promuovere la cultura americana e sottolineare i valori di libertà e creatività. Tra questi artisti, figure come Louis Armstrong, Dizzy Gillespie e il Dave Brubeck Quartet giocarono un ruolo cruciale.
Dave Brubeck, pianista e compositore jazz di fama mondiale, insieme a sua moglie Iola, osservò da vicino l'impatto che questi musicisti avevano all'estero. Notarono come il jazz, con la sua natura improvvisativa e inclusiva, fosse capace di superare barriere linguistiche e culturali, diventando un potente strumento diplomatico. Tuttavia, erano anche consapevoli delle contraddizioni interne agli Stati Uniti, dove la segregazione razziale e le tensioni sociali erano ancora prevalenti.
Questa consapevolezza li spinse a concepire un progetto audace: un musical jazz intitolato "The Real Ambassadors". L'idea era di utilizzare la musica per affrontare temi complessi come i diritti civili, la politica internazionale e il ruolo degli artisti come veri ambasciatori della cultura. Il protagonista ideale per questo progetto? Louis Armstrong, il cui carisma e talento lo rendevano l'incarnazione perfetta del messaggio che i Brubeck volevano trasmettere.
Armstrong, noto affettuosamente come "Satchmo", era già una leggenda vivente. La sua tromba aveva risuonato in tutto il mondo, e la sua voce distintiva aveva conquistato milioni di cuori. Ma oltre alla sua musica, Armstrong aveva una profonda comprensione delle sfide legate alla razza e all'identità negli Stati Uniti. Aveva vissuto in prima persona le ingiustizie della segregazione e, nonostante la sua fama internazionale, affrontava discriminazioni nel suo paese natale.
Quando Dave e Iola Brubeck gli proposero "The Real Ambassadors", Armstrong riconobbe immediatamente l'importanza del progetto. Il musical racconta la storia di un musicista jazz inviato all'estero come ambasciatore culturale, mettendo in luce le ironie e le contraddizioni di tale ruolo, soprattutto considerando le disparità razziali presenti negli Stati Uniti. Attraverso una combinazione di satira e sincerità, lo spettacolo mirava a evidenziare come la musica potesse essere un ponte tra culture diverse, pur sottolineando le sfide interne che il paese doveva affrontare.
La collaborazione tra Armstrong e i Brubeck fu intensa e fruttuosa. Le sessioni di registrazione, avvenute tra settembre e dicembre del 1961 negli studi della Columbia Records a New York, videro la partecipazione di altri talenti straordinari, tra cui il gruppo vocale Lambert, Hendricks & Ross e la cantante Carmen McRae. Il risultato fu un album che mescolava brani vivaci e riflessivi, affrontando temi come l'identità, la politica e la spiritualità.
Uno dei momenti più toccanti del musical è la canzone "They Say I Look Like God". In questo brano, Armstrong esprime con profonda emozione le sue riflessioni sulla razza e sull'umanità, offrendo una performance che commosse profondamente tutti i presenti durante la registrazione. La sincerità e l'intensità della sua interpretazione resero evidente quanto il tema fosse personale per lui.
Nonostante l'entusiasmo e la qualità artistica del progetto, "The Real Ambassadors" affrontò diverse difficoltà. Il musical fu eseguito dal vivo solo una volta, al Monterey Jazz Festival nel 1962. Quella performance, sebbene acclamata, non portò a una produzione su larga scala, principalmente a causa delle complessità logistiche e finanziarie coinvolte. Tuttavia, l'impatto culturale e sociale del progetto fu significativo. Affrontando apertamente le questioni razziali e politiche attraverso il jazz, "The Real Ambassadors" anticipò discussioni che sarebbero diventate centrali negli anni successivi.
Nel corso degli anni, l'eredità di "The Real Ambassadors" è stata celebrata in varie occasioni. Nel 2021, in occasione del 60° anniversario dell'album, il Louis Armstrong House Museum e il Forum for Cultural Engagement, attraverso l'Ambasciata degli Stati Uniti a Mosca, hanno co-presentato un film che celebra questa collaborazione storica, con performance registrate nelle case di Armstrong e Brubeck.
A questo proposito, per andare ancora più in profondità è uscito il libro di Keith Hatschek e c’è anche un podcast (40 minuti) delle Kitchen Sisters
La storia di "The Real Ambassadors" è un potente esempio di come la musica possa servire non solo come intrattenimento, ma anche come strumento di cambiamento sociale e riflessione culturale. Dave Brubeck, Iola Brubeck e Louis Armstrong, attraverso la loro collaborazione, hanno dimostrato che l'arte può affrontare temi complessi e stimolare dialoghi importanti, lasciando un'eredità che continua a risuonare ancora oggi. Sicuramente ci torneremo sopra, ma più avanti.
Tutto questo per un paio di frasi nell’audio che percorre con un fast forward il periodo che va dal 1900 al 1969 nella parte di carrellata che ho promesso per entrare meglio nel contesto delle narrative, delle storie, delle chiacchiere di questo Speakeasy. Il tema di questo episodio.
All’alba del Novecento, l’America era un paese in fermento. Le città si ingrandivano, i grattacieli iniziavano a sfidare il cielo e le fabbriche della Rivoluzione Industriale inghiottivano migliaia di lavoratori ogni giorno. Il Sud, però, sembrava ancora bloccato nel passato. Qui, tra i campi di cotone e le piantagioni che odoravano di sudore e speranza, gli afroamericani vivevano la contraddizione di essere tecnicamente liberi ma socialmente oppressi. Le leggi Jim Crow imponevano la segregazione razziale: scuole separate, autobus separati, perfino fontanelle diverse per bianchi e neri.
Ma mentre il razzismo dominava la superficie, sotto, come una corrente sotterranea, qualcosa si muoveva. Dai canti di lavoro e dagli spirituals, nei vicoli di New Orleans e nelle bettole di Storyville, nasceva una nuova musica: il jazz. Non c'erano spartiti precisi, né regole ferree: solo fiati roventi, pelli di tamburo battute con foga e improvvisazioni che sapevano di vita vera. Buddy Bolden, una leggenda già prima che qualcuno pensasse a registrare la sua musica, era il re delle prime bande jazz. Louis Armstrong, un ragazzino di New Orleans, guardava e imparava.
Poi arrivò la Prima Guerra Mondiale. Mentre l'America si lanciava nel conflitto, la musica nera iniziava il suo viaggio verso il Nord. Migliaia di afroamericani lasciarono il Sud per cercare lavoro nelle fabbriche di Chicago, Detroit e New York: era la Grande Migrazione. E con loro, viaggiava il jazz.
Negli anni Venti, l’America era divisa tra due anime: il proibizionismo e le feste sfrenate. Le bottiglie di whiskey passavano di mano nei locali clandestini, mentre le donne si tagliavano i capelli e si scoprivano le gambe al ritmo del Charleston. Il jazz era il suono di questa nuova America spregiudicata. Duke Ellington faceva tremare i muri del Cotton Club, un locale di Harlem che accoglieva solo clienti bianchi ma si riforniva del talento di musicisti afroamericani. Harlem, il cuore pulsante della cultura nera, diventava il centro di una rivoluzione culturale: la Harlem Renaissance.
Scrittori come Langston Hughes e Zora Neale Hurston raccontavano storie di uomini e donne neri con un orgoglio mai visto prima. Ma mentre alcuni si divertivano, altri si infuriavano. Il Ku Klux Klan tornava a marciare, e nel Sud le folle bianche linciavano impunemente gli afroamericani. La tensione cresceva.
Il 1929 portò il crollo di Wall Street e la Grande Depressione. Mentre la disoccupazione dilagava, il jazz si adattava: le big band prendevano il sopravvento, con Benny Goodman, Count Basie e un Duke Ellington sempre più sofisticato. Era l'epoca dello swing, la musica dell'evasione e del ballo sfrenato.
Ma c’era qualcosa di nuovo nell’aria. I musicisti afroamericani erano stanchi di suonare per il divertimento dei bianchi senza vedersi riconosciuti come artisti veri. Charlie Parker, Dizzy Gillespie e Thelonious Monk iniziarono a spezzare i ritmi, a rendere la melodia più astratta, a infittire le armonie. Nasceva il bebop, una musica intellettuale, ribelle, che diceva al mondo: “Non siamo qui per farvi ballare, siamo qui per farvi ascoltare.”
Nel frattempo, l'America si preparava alla guerra. Pearl Harbor trascinò il paese nel secondo conflitto mondiale e l’industria bellica assunse centinaia di migliaia di afroamericani. La guerra finì nel 1945, e con essa arrivò la consapevolezza che non si poteva più tornare indietro: i neri avevano combattuto per un paese che ancora li considerava cittadini di serie B.
Nel dopoguerra, l’America si trovò di fronte a un nuovo mondo. Il bebop divenne cool jazz con Miles Davis, poi hard bop con Art Blakey e John Coltrane. Ma la musica non era solo un’evoluzione stilistica: era il riflesso di un'epoca.
Gli anni ’50 furono gli anni della segregazione ancora feroce, ma anche delle prime sfide al sistema. Nel 1954, la Corte Suprema con la sentenza Brown v. Board of Education dichiarò incostituzionale la segregazione nelle scuole pubbliche (vedi sopra). Nel 1955, Rosa Parks rifiutò di cedere il suo posto su un autobus a Montgomery, innescando il boicottaggio dei bus e l’ascesa di Martin Luther King Jr.
Il jazz rispecchiava questa tensione. Mingus compose Fables of Faubus, una feroce critica al governatore dell’Arkansas che si opponeva all’integrazione scolastica. Max Roach e Abbey Lincoln registrarono We Insist!, un album-manifesto del movimento per i diritti civili. Coltrane incise Alabama, ispirato da un discorso di King dopo il massacro della chiesa battista di Birmingham.
Negli anni ’60, mentre il jazz si faceva più sperimentale con il free jazz di Ornette Coleman e il spiritual jazz di Alice Coltrane e Pharoah Sanders, l’America esplodeva. Malcolm X, il Black Panther Party, le proteste contro la guerra in Vietnam: il sogno americano vacillava.
Nel 1968, l’assassinio di Martin Luther King segnò la fine di un'epoca. Le città bruciarono, il movimento per i diritti civili si frantumò in mille rivoli. E il jazz? Anche lui si frammentò: il fusion di Miles Davis aprì le porte al funk e al rock, mentre nel cuore delle comunità nere il soul e il rhythm & blues prendevano il sopravvento.
Dal 1901 al 1969, l’America cambiò più volte pelle. Dalle piantagioni alle città, dai linciaggi alle marce per i diritti civili, dal blues al jazz d’avanguardia, ogni nota della musica afroamericana raccontò una storia di lotta, dolore e speranza.
La segregazione non finì magicamente con una legge, così come il jazz non smise di evolversi dopo Coltrane. Ma una cosa era chiara: la musica non era solo musica. Era storia, identità, rivoluzione.
Anche se non sempre tutto questo è condiviso dagli artisti che popolavano la piazza del jazz e prima o poi ci inciampiamo sopra, è inevitabile. Di una cosa però possiamo essere certi: la musica continuava a suonare, anche quando il mondo sembrava pronto a spegnerla.
In coda, questa volta, c’è la terza digressione che mi porta ad accendere una luce sul Proibizionismo che negli Stati Uniti (fra il 1920 e il 1933, circa) fu un’esperienza peculiare. Nella versione audio non ho spinto questo interruttore, lo faccio qui.
L'idea di vietare la produzione, la vendita e il consumo di alcolici nasceva da un impulso moralista e puritano che mirava a rendere la società più sobria e virtuosa. Tuttavia, come spesso accade quando si tenta di imporre una regola assoluta, si ottenne l'effetto opposto: l'alcol non scomparve, ma finì nelle mani della criminalità organizzata, e con esso nacque una cultura parallela fatta di locali clandestini, corruzione e, soprattutto, musica.
Con il proibizionismo, il consumo di alcol divenne illegale, ma non cessò. Anzi, la domanda crebbe esponenzialmente, portando alla nascita degli speakeasy, locali segreti dove si poteva bere e socializzare lontano dagli occhi della legge. Il termine "speakeasy" deriva dall'istruzione data ai clienti di parlare a bassa voce ("speak easy") per non attirare attenzioni indesiderate.
Questi locali spuntavano ovunque: dietro lavanderie, nei retrobottega, in scantinati, persino dietro false porte all'interno di negozi di fiori. Erano ambienti trasgressivi e vibranti, frequentati da gangster, politici corrotti, star del cinema e dalla nuova generazione di donne emancipate, le flapper, che scandalizzavano i benpensanti fumando, ballando e bevendo alcolici accanto agli uomini. Gli speakeasy non erano solo il rifugio dell'America edonista, ma anche il cuore pulsante di una rivoluzione musicale.
Se c'era una cosa che si sposava perfettamente con l'atmosfera fumosa e ribelle degli speakeasy, era il jazz. Nato nei quartieri afroamericani di New Orleans e cresciuto lungo il Mississippi fino a Chicago e New York, il jazz trovò nei locali clandestini il suo più grande palcoscenico.
L'era del proibizionismo coincise con quella che fu definita l'"Età del Jazz". Artisti come Louis Armstrong, Duke Ellington e Bessie Smith si esibivano nei club illegali, sperimentando con le loro musiche e portando un'energia travolgente in locali affollati di giovani danzanti. Il jazz era spontaneo, improvvisato, sfidava le regole come i suoi ascoltatori. Le ritmiche sincopate e i fraseggi audaci incarnano perfettamente lo spirito di una generazione che voleva liberarsi dalle costrizioni del passato.
Uno degli epicentri del fenomeno fu Harlem, dove sorsero locali leggendari come il Cotton Club. Questo speakeasy, finanziato dalla mafia, era famoso per le sue esibizioni di grandi musicisti afroamericani, ma paradossalmente la clientela era quasi esclusivamente bianca. Duke Ellington divenne una delle star del club, portando la sua orchestra a livelli di popolarità senza precedenti.
Accanto al Cotton Club c'erano centinaia di altri locali più inclusivi, dove i musicisti neri suonavano per un pubblico altrettanto nero, facendo emergere figure come Fats Waller e Cab Calloway. Harlem divenne così il cuore del Rinascimento nero, un periodo in cui la cultura afroamericana si impose con forza nel panorama culturale statunitense.
Nel 1933, con la crisi economica della Grande Depressione, il governo si rese conto che il proibizionismo era fallito. Il crimine organizzato era diventato più forte che mai, la corruzione dilagava, e il tesoro americano perdeva introiti che avrebbero potuto essere tassati. Così, con il 21° Emendamento, l'alcol tornò ad essere legale e gli speakeasy chiusero... o meglio, alcuni si trasformarono in veri nightclub.
Ma l'eredità degli speakeasy non svanì.
Il jazz continuò a prosperare, ormai riconosciuto come un genere musicale di primo piano. Gli anni successivi videro la nascita dello swing e l'evoluzione del jazz in nuove forme. Inoltre, il concetto di locale notturno come spazio di libertà ed espressione musicale rimase centrale nella cultura americana.
Il proibizionismo, nato con intenti moralizzatori, finì per dare vita a una delle epoche più affascinanti della storia americana. Gli speakeasy furono il rifugio di una generazione ribelle, e il jazz ne divenne la colonna sonora. Senza questa parentesi di clandestinità, la musica che conosciamo oggi sarebbe probabilmente molto diversa.
Sai una cosa? Gli speakeasy ci hanno insegnato una lezione incredibile: puoi anche provare a soffocare la cultura con tutte le leggi che vuoi, ma lei troverà sempre il modo di spuntare fuori. Magari dietro una porta nascosta, tra il fumo delle sigarette e il suono di una tromba che improvvisa nella notte.
È un po' come il jazz, se ci pensi. Il tema principale torna sempre, non importa quanto ti perdi nell'improvvisazione. È quella melodia che attraversa tutto il casino apparente della libertà creativa e alla fine riaffiora, inevitabile come il sole al mattino.
Perché la verità è questa: ci sono cose che nessuna legge riuscirà mai davvero a cancellare. Puoi provare a soffocarle, a spingerle ai margini, ma non scompaiono mica. Trovano altre strade, cambiano forma, si nascondono negli angoli che il controllo non riesce a raggiungere.
Guardati intorno nella storia: la musica che sopravvive nonostante la censura, le idee che rinascono più forti dopo ogni botta, le passioni che si reinventano nuovi modi per uscire allo scoperto. Vietare una cosa non significa ucciderla, reprimerla non vuol dire strapparla via dalle radici.
Quando qualcosa risponde a un bisogno che abbiamo nel profondo - che sia la sete di bellezza, di libertà, di giustizia o d'amore - quella cosa continuerà a esistere. È come un fiume: anche se gli metti davanti una diga, prima o poi trova la sua strada per scorrere.
Ed è una cosa che dovremmo ricordarci tutti: nella cultura le regole possono contenere, deviare, rallentare, ma non riescono a fermare quello che nasce dalla parte più vera di noi. La storia della cultura, della musica, delle idee è proprio questa: un continuo riemergere, come una melodia che nessuna censura riuscirà mai a far tacere completamente.
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